George Balanchine
Creatore rigoroso, raffinato formalista e principale fautore del balletto neoclassico, passato indenne attraverso tutte le rivoluzioni coreutiche del Novecento, Georgij Melitonovič Balanchivadze, meglio noto come George Balanchine – nato a Pietroburgo il 22 gennaio 1904 e scomparso a New York il 30 aprile 1983 -, è stato, secondo Rudolf Nureyev, un artista “indispensabile” per lo sviluppo della danse d’ecole nel Novecento. Le sue principali coreografie hanno infatti determinato lo stile, il tempo, la linea, la musicalità, l’agilità e l’arte del fraseggio danzato. Il Teatro alla Scala ha avuto occasione di confermare il giudizio del grande ballerino già nel 1952, quando la poetica di Balanchine – astratta, non narrativa e tutta basata sull’espressività del movimento in sé e per sé – costituì uno dei filoni più vivaci del repertorio coreografico scaligero, e le sue creazioni più significative, come Balletto Imperiale vennero riproposte costantemente, come esempio di serenità e certezza nella continuità di un balletto accademico rinnovato ma imprescindibile.
Fu proprio nel vivaio scaligero, tra l’altro, che Balanchine ebbe modo di avvalersi di interpreti adatti al suo limpido credo, ancora segnato dal magistero di Marius Petipa, il padre dei Lago dei cigni, che egli considerava “il Maestro dei Maestri”. “Mister B” – come fu affettuosamente soprannominato (nonostante godesse la fama di coreografo-tiranno) – muoveva i suoi corpi “ideali” come uno stratega poco interessato alle loro psicologie e personalità, nella convinzione che i ballerini non dovessero “pensare ma solo agire” e che fossero fiori destinati, purtroppo, a morire troppo in fretta e perciò a essere utilizzati solo all’apice della loro giovanile bellezza e forza fisica.
Olga Amati, Giulio Perugini e Gilda Majocchi, furono, nel 1952, i suoi primi “fiori”: gli artefici principali del mirabile disegno di Balletto Imperiale, mentre, un anno dopo, nel Bacio della fata, sempre in versione scaligera, il coreografo volle, accanto alla moglie Tanaquil Le Clercq, star del suo New York City Ballet, – di cui era diventato il direttore nel 1948 – ,anche Luciana Novaro, Vera Colombo e Giuliana Barabaschi. Nel 1960, Serenade, balletto di intensa temperatura lirica, anch’esso su musica di Čajkovskij, fu affidato oltre che alla Colombo, a Fiorella Cova, Elettra Morini, Carmen Puthod, Liliana Cosi, Vivienne Bocca, Mario Pistoni e Roberto Fascilla.
Sempre alla Scala si allestì, nel 1962, il suo Allegro brillante e due anni dopo Orfeo, su musica di Stravinskij. Il balletto, che aveva già fatto la sua apparizione sul palcoscenico del Piermarini nella prima vetrina del 1953, interamente dedicata al New York City Ballet, vantò come principali interpreti Mario Pistoni (Orfeo) e Vera Colombo (Euridice). Altre perle balanchiniane donate alla Scala negli anni Cinquanta furono Il palazzo di cristallo (poi denominato Symphony in C e prima, nel 1947, Palais de Cristal, con la Amati, la Majocchi, la Colombo, la Barabaschi, Ugo Dell’Ara, Perugini, Pistoni e Venditti) e, all’inizio degli anni Sessanta, Concerto Barocco, su musica di Bach con la Colombo (alternativamente a Carla Fracci), la Morini e Pistoni e I quattro temperamenti su musica di Paul Hindemith, che uniti a una ripresa di Balletto Imperiale, furono diretti sul podio da Umberto Cuttini e interpretati oltre che da Pistoni, Colombo, Morini, Fascilla, Venditti e Cova anche da Giancarlo Morganti.
Con la seconda apparizione del New York City Ballet alla Scala, nel 1965, sembrava che Balanchine, l’artista indispensabile, si fosse definitivamente congedato dall’istituzione milanese. Ma non fu così, almeno virtualmente. Apollon Musagète (1928), il balletto che – oltre a inaugurare la sua collaborazione a quattro mani con Stravinskij e ad imporsi in seno ai Ballets Russes, di cui Balanchine fece parte dal 1925 al 1929 – si vide sì, per la prima volta alla Scala nell’interpretazione del New York City Ballet (con il titolo di Apollo) proprio in quel 1965, ma in seguito fu acquisito dalla compagnia scaligera senza mai uscire dal repertorio. Stessa sorte toccò anche al suo Figliol prodigo (1929) che però vi fece il suo ingresso molto tardi, nel 1986.
Oltre al genio personale, qualità imponderabile, ci si chiede quali fattori abbiano contribuito a rendere Balanchine un creatore “indispensabile”. La risposta va cercata nei giovanilistici inizi della sua carriera (firmò la sua prima coreografia, La Nuit nel 1929, a sedici anni), nelle frequentazioni di ambienti culturali diversi, nelle scelte drastiche e decisive. Come quella di abbandonare la Russia già nel 1924, dopo aver compreso che le sue idee coreografiche poco interessavano al Teatro Mariinskij di Pietroburgo, di cui era entrato a far parte nel 1921, dopo aver terminato gli studi di balletto all’annessa Scuola Imperiale, ma anche quelli di pianoforte e teoria al Conservatorio della stessa città.
Più importanti di quanto non si sia sino ad oggi creduto, furono, per i suoi esordi creativi, i contatti con l’avanguardia teatrale russa: l’incontro con Vladimir Majakovskij, la visione delle coreografie innovative di Kazian Goleizovskij e Nikolas Foregger, l’attività al teatro sperimentale Feks e nel cabaret, indirettamente influenzata dalla biomeccanica di Vladimir Mejerch’old. Ottimo danzatore e musicista, oltre che precoce talento coreografico, non gli fu difficile ottenere dal governo rivoluzionario sovietico il permesso di espatriare in Germania, appunto nel’24, con una piccola compagnia di cui facevano parte Alexandra Danilova e Tamara Geva che, tra l’altro, divennero, una dopo l’altra, le sue due prime mogli.
Nel 1925 (l’anno in cui mutò il suo nome in George Balanchine, più semplice all’orecchio occidentale), Sergej Djagilev lo chiamò a Parigi: i milanesi lo videro ballare al Teatro alla Scala nel 1927, durante la seconda apparizione del gruppo djagileviano a Milano.
Balanchine non fu mai particolarmente vicino a Djagilev, forse per la sua spiccata predilezione per il sesso femminile (ebbe in tutto cinque mogli), ma questo piccolo ostacolo non gli impedì di diventare il coreografo di riferimento nell’ultima fase di vita della celebre compagnia. Tutte le coreografie che firmò per i Ballets Russes si tramutarono in successi immediati; inoltre, in seno alla compagnia, egli aveva conosciuto Stravinskij, con il quale formò la seconda coppia russa più famosa e fertile del balletto (dopo la collaborazione tardottocentesca del coreografo Marius Petipa con Čajkovskij). In Stravinskij, Balanchine trovò una sorta di alter ego musicale a lui affine non solo nella Weltanschauung artistica, ma anche nei tratti della personalità distaccata e ironica. Basti pensare che nel 1942 i due, uniti per soddisfare una commissione dei Ringling Brothers, crearono addirittura una danza per elefanti: l’effervescente Circus Polka, rappresentata dal grande circo americano per un’intera stagione e con grande successo. Ma ormai Balanchine non era più un artista europeo. Si era trasferito oltre oceano e aveva preso la cittadinanza americana: nel 1934 l’impresario Lincoln Kirstein, che poi si sarebbe rivelato anche un acuto storico del balletto, lo aveva invitato a dirigere la School of American Ballet. Ed egli, che alla morte di Djagilev era diventato un free lance, attivo a Copenhagen, Londra, Parigi (nel ’33 vi aveva creato, per la compagnia Les Ballets, Mozartiana e soprattutto I sette peccati capitali di Brecht-Weill ), accettò. Divenne insegnante e animatore di varie compagnie statunitensi come l’American Ballet, l’American Ballet Caravan, il Ballet Society, prima di trasformare quest’ultimo gruppo nel New York City Ballet (1948) di cui restò direttore artistico sino alla morte. Nel 1964 la città di New York destinò proprio alla sua compagnia l’uso dell’ambitissimo New York State Theatre, presso il Lincoln Center.
In America Balanchine confermò e approfondì la sua ricerca linguistica, creando balletti per lo più astratti, sempre improntati a un attento esame delle partiture musicali. L’influenza del nuovo paese e la sua cultura veloce e di massa contribuirono a rendere persino più “democratico” il suo stile. Principi e regine, come si ebbe modo di constatare alla Scala negli anni Cinquanta e Sessanta, non entrarono mai nei suoi balletti di pure linee. Anzi, certe coreografie, come Stars and Stripes (1958), Square Dance (1957) o Who Cares? (1970), su musica di Gershwin (per non parlare dei musical, come On Your Toes, firmati a Broadway alla fine degli anni Trenta) rivelano che la sua danza tendeva a rispecchiare gli ideali della nuova classe media americana, pur senza giungere a ibridare il suo linguaggio con altre tecniche moderne, opposte al balletto, come in talune opere di Jerome Robbins (il coreografo di West Side Story), che fu a lungo suo collaboratore al NYCB.
Per nulla affascinato dalla danza narrativa, si può capire perché avesse allestito nella sua lunga carriera solo alcuni classici del repertorio ottocentesco; tra questi uno scintillante Schiaccianoci (1954), tuttora cavallo di battaglia natalizio del NYCB. Ma del resto nel suo ampio repertorio spiccano autentici e insostituibili capolavori non solo antinarrativi ma anche “nudi”, immersi in uno spazio virtuale e nel décor che preferiva: la luce. Dentro la luce fece rinascere anche il suo Apollon Musagète in forma di balletto concertante (1979), depurando la coreografia di ogni scoria teatrale (scene e costumi grecizzanti) a riprova che questo caposaldo dei Ballets Russes al tramonto, non si sarebbe mai davvero fermato nel tempo.
A Balanchine si richiamano artisti del teatro come Robert Wilson e coreografi contemporanei come William Forsythe, mentre il termine “balanchiniano”, che sta a ricordare l’influenza da lui esercitata su tutto il balletto del Novecento, indica una pratica coreografica basata sull’esplorazione delle potenzialità espressive del movimento, nella sola esaltazione delle sue linee più adamantine e pure, in costante dialogo con le strutture musicali.